YouTube Ads: ora anche per genocidi
Manuale pratico per trasformare crimini di guerra in storytelling
Trovo ci sia una perversione oscena nel fatto che che mentre noi ci arrovelliamo sui creative brief, qualcun altro ha già capito come trasformare YouTube in una gigantesca macchina da propaganda. E ci è riuscito comprando semplicemente degli annunci.
Le inchieste di Fanpage.it e Domani hanno alzato il velo su una operazione che ha dell'incredibile per la sua semplicità: Israele che usa Google Ads per promuovere video di soldati che distribuiscono aiuti a Gaza. Video che, guarda caso, raccontano una storia molto diversa da quella che emerge dalle cronache internazionali. Ma il punto non è neanche questo: il punto è che le piattaforme lo permettano.
E mentre noi qui ci chiediamo se è etico usare l'intelligenza artificiale per trasformarci in un personaggio di Studio Ghibli là fuori qualcuno ha già risolto il problema dell'etica semplicemente ignorandola.
Il gioco delle tre carte digitali
Immagina di essere in una piazza e di vedere un tizio che fa il gioco delle tre carte. Sai che è una truffa, ma è affascinante guardare come riesce a convincere la gente. Ecco, quello che sta succedendo su YouTube è più o meno la stessa cosa, solo che invece della piazza c'è Internet e invece delle carte ci sono gli spot.
Prendiamo i video emersi dall'inchiesta, tradotti già in diverse lingue e geo-targettizzati: soldati israeliani sorridenti che distribuiscono cibo e medicine ai civili di Gaza. Immagini toccanti, umanità in divisa, bambini che ricevono aiuti. Il messaggio dice: "Guardate, noi siamo i buoni, stiamo aiutando". Mentre questi video vengono promossi su YouTube, la realtà è che Israele ha sistematicamente chiuso ogni accesso umanitario a Gaza. Non stiamo parlando di opinioni o propaganda: stiamo parlando di fatti documentati dall'ONU, dalla Croce Rossa, da tutte le organizzazioni umanitarie del mondo. I camion di aiuti vengono bloccati ai checkpoint, le agenzie umanitarie non riescono a entrare, la popolazione viene letteralmente spinta all'inedia.
Le implicazioni, naturalmente, dovrebbero inorridirci: milioni di utenti YouTube vedono soldati che "aiutano" Gaza mentre la realtà documentata è esattamente l'opposta.
Siamo oltre la disinformazione, siamo alla sovversione del reale. Quando la propaganda riesce a far credere che nero sia bianco, che chi affama sia chi sfama, allora il dibattito democratico perde ogni significato.
Il meccanismo, se vogliamo, è la banalità del male in versione digital: prendi la cosa più lontana dalla verità possibile, confezionala come contenuto emozionale, promuovila come pubblicità (così nessuno la riconosce come propaganda), e il gioco è fatto. È lo stesso playbook che usiamo tutti: storytelling, targeting, call-to-action. Solo che qui la conversione non è un acquisto, è il consenso per un massacro. La differenza con il truffatore della piazza è nell’inconsapevolezza; qui nessuno sa di stare guardando il gioco delle tre carte, probabilmente nemmeno lo capirà se glielo dici.
YouTube: il salotto buono della disinformazione
Se dovessi spiegare YouTube a un alieno, direi che è un posto dove i gatti che suonano il piano coesistono pacificamente con la propaganda di Stato. E il bello è che l'algoritmo non fa distinzioni: un video di un gattino può avere la stessa reach di un video di disinformazione, purché entrambi generino engagement.
Google ci ha fatto credere per anni che il loro motto fosse "Don't be evil", uno slogan che usavano dal 2000 per distinguersi dalle altre aziende tech. Nel 2018 l'hanno silenziosamente rimosso dal loro codice di condotta - e a giudicare dal caso degli annunci israeliani, sembra che l'abbiano sostituito con "Don't be evil, a meno che non paghi abbastanza per la pubblicità". Il caso degli annunci israeliani sta qui a dirci quanto sia facile trasformare la piattaforma video più utilizzata al mondo in un megafono per narrazioni strumentali e false.
E la trasparenza di cui tanto si parla? Esiste, tecnicamente. C'è anche la libreria degli annunci di Google, dove teoricamente puoi vedere chi paga per cosa. È un po' come dire che esiste la trasparenza fiscale perché i bilanci delle aziende sono pubblici: vero, ma sappiamo bene come possono andare a finire certe cose.
L'arte di vendere sabbia nel deserto
C'è tanto, tantissimo di osceno nel vendere una narrativa di "aiuti umanitari" mentre stai letteralmente affamando una popolazione. Lo ripeto, perché è il nodo centrale: Israele ha sistematicamente bloccato l'accesso degli aiuti umanitari a Gaza. Non è un'opinione, non è propaganda anti-israeliana, è un dato di fatto documentato da ogni organizzazione internazionale. L'ONU, la Croce Rossa, Médecins Sans Frontières: tutti denunciano da mesi l'impossibilità di far arrivare cibo, farmaci e acqua alla popolazione palestinese.
Su YouTube, pagando qualche migliaio di dollari a Google, puoi comprare milioni di visualizzazioni per video che mostrano soldati israeliani che distribuiscono aiuti. E questa cosa ha solo marginalmente ha a che fare con l’AI, che pure è utilizzata. La popolazione di Gaza muore di fame - lo sanno i giornalisti, lo sanno le agenzie umanitarie, lo sa chiunque legga i giornali. Eppure le persone possono guardare questi video in adv e pensare: "Ma guarda, quanto sono bravi questi soldati che aiutano i bambini". È una operazione di manipolazione della realtà che fa impallidire Orwell: mentre affami una popolazione, compri pubblicità per raccontare che la stai sfamando.
È difficile immaginare un cinismo più puro di questo, che per esistere usa gli stessi strumenti che noi usiamo per vendere scarpe o assicurazioni. È un colpo letale al cuore stesso della democrazia: il diritto del pubblico a un'informazione veritiera. Quando milioni di persone vedono una realtà completamente falsificata, quando la propaganda riesce a sovvertire fatti documentati e verificabili, allora il dibattito pubblico perde ogni senso. Come fai a discutere di politica internazionale con qualcuno che ha visto su YouTube che Israele sfama Gaza, mentre tu hai letto sui giornali che la sta affamando?
Il problema non è neanche tanto la propaganda in sé - quella esiste da quando esiste la comunicazione. Il problema è che oggi la propaganda può vestirsi da pubblicità e con questo outfit presentarsi alla festa dell'opinione pubblica come se fosse informazione. All’ingresso, nessuno controlla i documenti.
E noi?
Ogni giorno usiamo gli stessi strumenti, le stesse piattaforme, le stesse metriche di chi diffonde disinformazione; i meccanismi sono identici: creatività, targeting, ottimizzazione, A/B test, conversion rate. Che differenza passa, quindi, tra chi ha un cliente che vuole vendere più scarpe da ginnastica e chi con un agenda politica chiara manipola in ogni modo la realtà?
Gli strumenti sono neutri, si dirà. E si avrà ragione, nel dirlo. Il problema è che noi non lo siamo. Ogni volta che creiamo una campagna, stiamo scegliendo quale realtà promuovere, quale narrazione amplificare, quale verità rendere più visibile. E quando diciamo "io faccio solo marketing\pubblicità\creatività\comunicazione", è un po' come dire "io fornisco solo le armi" mentre qualcuno sta sparando. Tecnicamente vero, eticamente discutibile.
L'algoritmo non ha coscienza (e neanche noi, a quanto pare)
Gli algoritmi sono come i bambini: imparano per imitazione e non hanno filtri morali. Se gli insegni che i contenuti che generano più engagement sono quelli da promuovere, loro promuoveranno tutto quello che funziona, dalla ricetta della cheesecake ai piani per destabilizzare una democrazia.
Il punto è che noi adulti abbiamo delegato le decisioni editoriali a degli algoritmi progettati per vendere pubblicità, non per educare il pubblico.
Quando la propaganda si traveste da spot, l'algoritmo non deve neanche scegliere. Basta pagare. I video dei soldati che distribuiscono aiuti non vengono promossi perché sono popolari o ingaggianti - vengono promossi perché qualcuno ha aperto il portafoglio. L'algoritmo diventa solo il postino che consegna bugie a domicilio, senza fare domande. Il sistema pubblicitario di YouTube è progettato per essere cieco ai contenuti: se rispetti le policy di base e paghi, il tuo messaggio arriva a milioni di persone. Non importa se stai vendendo scarpe o vendendo consenso propagandistico. Il prezzo è lo stesso, il meccanismo è identico, l'efficacia garantita. Non serve essere convincenti, non serve essere credibili, non serve neanche essere veri. Serve solo potersi permettere il conto.
E mentre gli algoritmi imparano a ottimizzare l'engagement per i contenuti organici, le piattaforme ottimizzano i sistemi di pagamento per i contenuti sponsorizzati. È un circolo vizioso in cui tutti diventano più bravi a manipolare il sistema, ma nessuno si chiede se il sistema stesso abbia senso.
Siamo qui, nell'era della comunicazione istantanea, dove il primo che posta vince e il fact-checking arriva sempre dopo la festa. La verifica dei fatti richiede tempo, la propaganda no. La questione non è che la gente sia stupida. La questione è che i meccanismi di persuasione e manipolazione digitale (e non) sono diventati talmente sofisticati da ingannare anche chi sa come funzionano. Quando un video propagandistico arriva nel tuo feed di YouTube tra un tutorial di cucina e un video di gattini, quando ha la stessa grafica professionale di una pubblicità di Netflix, quando sfrutta gli stessi trigger emotivi di una campagna benefica, come fai a distinguerlo?
"La gente non sa riconoscere le fake news", "bisogna insegnare la media literacy", "serve più consapevolezza digitale". Traduzione: Non è colpa di nessuno se questa roba funziona così bene. Google ha la responsabilità di aver concesso a chiunque di poter comprare la verità. Noi abbiamo quella di sapere come funzionano questi meccanismi e scegliere cosa farci. Non siamo responsabili delle regole del sistema, ma siamo responsabili di come scegliamo di usarlo.
Il problema, temo, non è insegnare alla gente a non farsi fregare mentre utilizziamo mezzi sempre più sofisticati per fregarla. Il punto, probabilmente, sarebbe smettere di fregarla.
Il modello di business dell'attenzione
Quello di cui ci vogliamo disinteressare è che stiamo tutti giocando in un casinò dove il banco vince sempre, e il banco sono le piattaforme digitali. Loro guadagnano sull'attenzione, noi la vendiamo, il pubblico la paga. È un sistema perfetto, se non fosse per il piccolo dettaglio che l'attenzione non è infinita e qualcuno, prima o poi, il conto lo deve pagare.
E il conto lo paga la democrazia, lo paga l'informazione, lo paga la capacità delle persone di distinguere tra realtà e finzione. Ma tranquilli, le metriche sono ottime: l'engagement è alle stelle, la reach è cresciuta del 300%, e il tasso di conversione... beh, dipende cosa intendiamo per "conversione". Se conversione significa trasformare cittadini informati in consumatori disinformati, allora sì, il tasso di conversione è altissimo.
Ogni campagna di comunicazione è, in fondo, una guerra di narrazioni. Chi racconta la storia migliore vince, chi ha il budget più alto amplifica di più, chi conosce meglio gli algoritmi raggiunge più gente.
Il caso degli annunci israeliani è solo la punta dell'iceberg. Ogni giorno, migliaia di campagne lottano per conquistare un pezzetto della nostra attenzione, per convincerci che la loro versione della realtà è quella giusta.
E noi possiamo essere o meno i mercenari di questa guerra, possiamo esser pronti o meno a vendere le nostre competenze al miglior offerente. Perché possiamo anche scegliere da che parte stare.
Non per ideologia, ma per sopravvivenza: perché un mondo dove la verità si compra all'asta è un mondo dove la comunicazione perde di senso.
Di questo, sì, dovremmo iniziare a preoccuparci.
Preoccuparci con coraggio: quello di dire no a clienti che vogliono campagne manipolative, quello di educare sapendo che puoi anche vendere, quello di essere trasparenti anche quando non converrebbe.
In fondo, questo è quello che mi ha spinto- tra le altre cose- a scrivere Between The Lines. Cercare di leggere quello che non è scritto, di capire quello che non è detto, di vedere quello che non è mostrato. E quello che vediamo, tra le righe di questa storia, è che la comunicazione non è mai stata così potente e così pericolosa allo stesso tempo. Abbiamo in mano strumenti che possono informare o disinformare, educare o manipolare, costruire o distruggere.
Questa vicenda, personalmente, mi ricorda che la neutralità è un mito, che la trasparenza è una scelta, e che l'etica non è un optional ma una necessità. Non perché io sia buona, ma perché voglio continuare a esser credibile. Ci ripetiamo che non salviamo vite e non salveremo di certo il mondo, ma forse la nostra professione possiamo ancora salvarla.